Cosa vuol dire tornare a vivere in quel paese che riconosci nella forma dei tuoi occhi e nel colore della tua pelle, ma che in verità non hai mai visto e visitato?
Questo è un blog un po’ strano, dove da sempre ho messo insieme tanti argomenti diversi.
Dove la mia vita quotidiana si alterna alle notizie che arrivano dal Venezuela, alle preziose traduzioni di Odilia, ai racconti emozionanti di Cono, alle recensioni su prodotti di bellezza, ristoranti, negozi, ai racconti dei miei viaggi, alle mie giornate a Milano, alle mie peripezie come madre di due gemelle, come donna e lavoratrice. Un blog in cui vi racconto tutto quello che faccio e dove spesso vi presento persone incontrate lungo il mio cammino, che credo abbiano una bellissima storia da raccontare e da farvi conoscere.
Tanti anni fa, ormai è il caso di dirlo, ho avuto la fortuna di incontrare tra i banchi di scuola quella che oggi è una cara amica. Frequentavamo lo stesso liceo e avevamo diverse amicizie in comune. Negli anni, un po’ anche grazie a Facebook, siamo riuscite a non perderci, o comunque a ritrovarci.
Quando ci siamo riviste, dopo un periodo di buio totale in cui ciascuna delle due era impegnata a costruire la propria vita “matura”, è stata una grande gioia riabbracciarci. Abbiamo parlato in modo più diretto e sincero di quanto non facessimo 20 anni fa! Dio mio….20…sono già passati tanti anni!
Sara ed io eravamo due adolescenti, simili in tantissime cose.
A differenziarci c’erano solo i suoi occhi, molto più belli e particolari dei miei, la sua pelle ambrata rispetto alla mia sempre tendente al grigio. Per il resto mi ha sempre fatto sorridere sentirla parlare, una cadenza pulita, aggraziata, ma con quell’accento milanese che nessuno di noi si sente addosso, mentre tutti ci dicono essere fortissimo. Io nata in Venezuela e arrivata in Italia dopo 9 anni. Lei nata in Corea due anni prima, il 17 giugno del 1978, ammessa alla Holt 5 giorni dopo e arrivata in Italia il 26 ottobre dello stesso anno.
Quando, vergognandomi per il fatto di non saperlo, le ho chiesto di spiegarmi meglio cosa fosse la Holt, ho fatto l’errore di paragonarlo ad un “istituto”.
La sua risposta è stata: “Gli istituti sono il frutto dell’immaginario collettivo della nostra generazione, venuta su a Candy Candy. La Holt è la più grande agenzia mondiale creata da Harry Holt, colui che ha legalizzato l’adozione. Tutte le adozioni nel mondo sono basate sul modello Holt”.
Il suo papà adottivo la vide per la prima volta che aveva tre mesi, proprio in Corea, dove conobbe la sua foster mum. Un mese dopo Sara sarebbe arrivata a Milano, con i suoi genitori adottivi. Come mi racconta: “noi alla fine noi abbiamo 3 mamme, quella biologica, quella affidataria, la foster mum appunto, e quella adottiva”. Sara ha un fratello di adozione nazionale (Italia) ed una sorella di adozione internazionale (Corea del sud), entrambi più grandi di lei.
Per molti anni non ha mostrato un grande interesse verso il suo paese di origine, finché, nel 2012, si è ritrovata a partire per la Corea, per la prima volta, con un viaggio organizzato da un’associazione che si chiama Inkas, che ogni anno offre un viaggio completamente gratuito a 40 adottati in tutto il mondo.
Dall’aprile scorso Sara lavora in Corea, sta imparando la lingua, tendenzialmente frequenta altri adottivi e, pur sapendo alcune cose dei suoi genitori biologici, non se ne interessa poi tanto. Sara sa anche di avere una sorella ed un fratello biologici. Non ama particolarmente la Corea e non vede l’ora di rientrare in Italia, non è facile adattarsi alla cultura coreana, se sei cresciuta in Italia, con una visione completamente diversa del mondo. Ogni tanto mi dona i suoi pensieri, così non ho resistito e le ho chiesto di poterli pubblicare qui! La ringrazio per aver accettato e per aver scelto anche lei di Vivere per Raccontarla e per mandarmi i suoi aggiornamenti quasi quotidiani dalla Corea.
Cosa vuol dire tornare a vivere nel proprio paese di origine? Tornare a vivere in quel paese che rivedi sempre nella forma dei tuoi occhi e nel colore della tua pelle, ma che in verità non hai mai visto e visitato?
Per molti tu sei quella persona ingrata che ha ferito i genitori che ti hanno amato da piccolo, che ti hanno cercato, desiderato e che dopo anni di sedute dallo psicologo, riunioni con avvocati e tribunale e viaggio ti hanno amato e viziato e continuano a farlo.
Cosa significa adozione internazionale?
Adozione è solo un altro modo per aver dei figli e formare una famiglia. Non siamo speciali, ma siamo solo una famiglia che si ama e che si vuole bene come qualsiasi altra famiglia. La Corea del sud da dopo la guerra fino all’inizio del 1980 diede in adozione internazionale 220 mila bambini a 16 paesi diversi di cui si contano solo 300 in Italia.
Quindici anni fa i primi adottati dalla Francia e dagli USA tornarono a vivere in Corea del Sud con diverse motivazioni: per ritrovare i genitori, per ritrovare la propria cultura oppure semplicemente per fare un’esperienza lavorativa internazionale. Oggi si contano in tutta la Corea del sud 4 mila adottati residenti o con doppio passaporto.
Una piccola comunità che vive qui, di francesi, belga, svizzeri, inglesi, italiani, danesi, svedesi, tedeschi, olandesi, norvegesi, australiani, americani, canadesi… affollano le strade Itaewon (zona internazionale di Seoul) lavorano tutti a Seoul e si incontrano la sera…stessi occhi a mandorla, stesso colore di pelle, ma non parlano coreano, per comunicare parlano in inglese.
Tornare nel proprio paese d’origine significa soprattutto che nulla si è rotto ma tutto si sta completando. Nel mio cuore porto tutte le persone che ho incontrato qui in Corea, quelle che mi hanno dato qualcosa e soprattutto quelle che hanno voluto condividere con me la loro storia.
Non c’è una parte di me “rotta”, anzi, al contrario, c’è una parte di me che si è consolidata. Una parte di me, infatti, sa cosa vuole e una parte di me semplicemente ama. Perché io amo i miei genitori oggi più che mai, come amo tutti coloro che, giorno per giorno, stanno deciso di camminare al mio fianco. Non cambia niente, almeno per me. Io sono come sono. I’m just me.
E’ capitato che sentissi alcuni coreani adottivi in Italia dire: “eh sì, perché noi coreani siamo così”, ed io mi domando: ma cosa significa essere coreano per loro? vuol dire avere solo il colore di pelle diversa e gli occhi a mandorla?
Io non mi sento coreana … non mi sono mai sentita più italiana di oggi!
Simon, inglese di adozione, un giorno mi ha detto: “come sei italiana!”. Mi ha fatto ridere! Mark adottivo in Pensylvenia: “com’è cool essere italiana … se le italiane sono come te!”. Io sono italiana. In un’altra occasione, ancora Simon mi ha chiesto: “come ci si sente essere unici nella comunità degli adottivi”… non ci si sente…. I mean, non mi sento così unica nella comunità degli adottivi, mi sento esattamente come tutti!
Cosa significa dunque vivere in una comunità di 4 mila adottivi che arrivano da tutto il mondo?
Significa vedere quello che sei. Gli adottivi che vengono qui arrivano da 16 paesi diversi, intrecciano le loro vite e sono tutti speciali, tutti unici. Il mio intento di non frequentare la comunità degli adottivi è fallito sul nascere. Non si può evitare di incrociare gli adottivi per la strada, in un bar alla sera soprattutto se si frequentano le zone internazionali.
Si è vero, rispondo a Simon, siamo in 3 qui di italiani, ma non mi sento molto diversa da te che sei britannico o da Mark che è americano e da Raphael che è belga… non vedi come siamo simili!?!
In ognuno di noi vedo quel modo di fare simile. Paurosi nella relazioni, diffidenti e paurosi. Ci nascondiamo, ci mescoliamo tra i corani perché di fatto cerchiamo di nascondere le nostre paure. Li chiamiamo “i bianchi” quando un occidentale si avvicina a noi, ma poi andiamo a cercarli, perché non cerchiamo i coreani.
“Ti sei integrato?” ho chiesto a Raphael l’altra sera. Lui vive da 8 anni in Corea ” I dont care! – io vivo la mia vita… o meglio i coreani sono strani … ho tanti amici coreani ma loro sono ok… I’m just me…. non faccio più differenze … I’m just me”.
“E’ strano non ti ho mai visto con gli adottivi, come mai?” chiedo a Simon.
“Per essere amici non basta essere adottivi, ci deve essere quel qualcosa in più. Ho tanti amici coreani, ma faccio fatica. Loro sono come sono. Se dovessi darmi una definizione direi che sono un po’ britannico, il risultato di una moltitudine di culture. Prima il Belgio, poi l’Inghilterra, poi Zanzibar, poi la Cambogia…ora da 5 anni in Corea. Ho appreso quello che sono oggi e sono la persona che sono, non grazie alla Corea, non grazie all’Inghilterra ma grazie alla vita che ho vissuto finora“.
“E tu come ti senti? tu sei unica. Sei la prima che mi dice che non è interessata a conoscere i genitori biologici. cosa sai?” mi chiede Simon in metropolitana all’una di notte, con la luce metallizzata come in un film di Wong Kar Wai o in un libro di Murakami.
“La signora Choi ha una famiglia … insieme al signor Kong ha voluto costruire una famiglia formata da 4 persone e non di cinque. Io guardo il mio futuro non guardo il mio passato, per me è così. I passi che sto facendo sono per il mio futuro. La Corea mi ha arricchita e mi ha aiutata ad essere la persona che sono e non mi interessa a capire la persone che sarei potuta essere!
Non mi sono mai sentita così italiana come oggi!
There’s no part of me that you didn’t break, for which I am truly grateful. You don’t complete me–as Jerry said to Renee in that sexy 90’s film about football–but you certainly helped me complete myself. I’m a better man because of you. let’s do my best for living in Seoul. And of course, I will see you again maybe someday!
Grazie Sara, grazie di cuore!