Negli ultimi anni sono cambiate tante cose nella mia vita.
Ho avuto il dono di Giulia e Vittoria, ho dato vita a questo e ad un altro blog, mi sono dedicata a moltissime novità, ho ribaltato ogni mio precedente punto di vista, ho provato come mai prima d’ora cosa significhi l’amor patrio. Ma soprattutto ho conosciuto moltissime nuove persone, le loro storie, le loro avventure e, spesso, ho avuto la fortuna di poter sbirciare anche nei loro cuori. Non smetterò mai di ringraziare tutte le persone che mi hanno spronata ad aprire un blog. Non tanto per il fatto di essere riuscita a dare libero sfogo ai mille pensieri sparsi che affollano la mia mente ogni giorno, non solo per il desiderio di far conoscere a quante più persone la situazione sociale, politica ed economica deprimente in cui si trova il mio amato paese natale. Quanto perché Vivere per Raccontarla si è trasformato in breve tempo in un luogo di incontro, in un salotto dove incontrare vecchi e nuovi amici, in cui scoprirsi e conoscere tante nuove storie, a volte molto intime. Un angolo sereno in cui raccontarsi, perché insisto, nulla merita di essere raccontato come la vita. Come è stata e come la ricordiamo. Vivere per Raccontarla, appunto. Sono state moltissime le persone che mi hanno donato i propri pensieri e le proprie storie in questi anni, e ne sono così felice! Solo questo mi fa dire che sia valsa la pena e la verità è che non desideravo altro, non volevo nulla di diverso. Perché non ho mai avuto manie di protagonismo, nonostante tutto. Perché ho sempre sognato di poter unire tante storie in una sola, di poter raccontare tramite il vissuto di più persone un paese meraviglioso che oggi purtroppo esiste solo nei nostri ricordi. E poi… e poi io nel destino ci credo e sono certa che dietro ad ogni incontro ci sia sempre un perché.
Oggi pubblico un racconto molto bello, che con i suoi aneddoti ed i suoi protagonisti non avrebbe assolutamente nulla da invidiare a tante altre meravigliose storie tipiche della letteratura latino americana.
Ringrazio con tutto il mio cuore Raffaele per avermela donata, per avermi incantata con la sua bella storia e per scelto proprio questo blog, per averlo ritenuto adatto a contenere e conservare il suo racconto, come quando si sceglie una cornice per esibire un’opera a cui teniamo molto. Ne sono lusingata.
Mia nonna si chiamava Pepita Tagliaferro, cognome non propriamente venezuelano, i suoi avi provenivano dall’isola d’Elba.
Il Dottor Tagliaferro faceva parte dell’entourage medico che aveva in cura Napoleone Bonaparte venne poi esiliato, come del resto tanti altri malcapitati, proprio in Venezuela.
Passarono gli anni ed agli inizi del Novecento nacquero Lola, Pepita e Sofia.
Presto mia nonna Pepita avrebbe incontrato l’uomo che l’avrebbe fatta impazzire, il conte Corrado Leopardi, incontrato e conosciuto proprio a Caracas nei salotti bene della borghesia venezuelana se ne sarebbe infatti innamorata follemente. Da questa unione sarebbero nati in men che non si dica Maria Letizia, Maria Antonietta e Maria Cristina (che diventera’ mia madre), rispettivamente conosciute a Caracas come “Maruja, Teca y Lolo“.
Mio nonno Corrado (11 lingue perfettamente parlate e scritte) fu il più giovane italiano a partecipare alla marcia su Roma e la sua chiara appartenenza politica lo avrebbe portato poi ad avere collaborazioni importanti negli anni con personaggi quali Francisco Franco, Papa Doc Duvalier, Georghios Papandreu, tra gli altri.
La sorella di mia nonna Lola, nel frattempo, non avendo avuto figli dal suo matrimonio con Pedro Antonio Gutierrez Afaro, adottò simbolicamente come fossero sue, le tre nipoti, mentre il marito, famosissimo ginecologo di Caracas nonché fondatore del Centro Medico, si ritrova ad essere ministro della sanità venezuelana durante gli anni di Perez Jimenez. La vita di Corrado si dipana in giro per il mondo mentre Lola, Pepita, Maruja, Teca e Lolo si sollazzano tra Miami e New York che, come tu ben sai, sono state per anni le mete più ambite dai ricchi venezuelani.
Avevano una meravigliosa villa a Miami con ‘yate privado’ ormeggiato sotto casa, un appartamento bellissimo a NYC……e poi il destino ha pensato bene che dovessi nascere io.
Per completezza d’informazione zia Maruja, unica ancora in vita delle tre sorelle, si sposerà con Jean Jacque Poincot, un ingegnere francese che, una volta approdato nella meravigliosa terra del caribe iniziò a produrre elettrodomestici in Venezuela, con il famoso marchio americano del tempo ‘kelvinator‘.
Teca invece si sposò con un avvocato venezuelano di lontanissime origini tedesche (ti dice niente la Colonia Tovar??), Silvestre Tovar Lange. Il suo studio legale va non a gonfie vele ma…di più, annoverando tra i suoi clienti grosse banche tipo la First National City Bank ed il Credite Lyonnaise. Per diversi anni fu anche l’avvocato della Fiat, poi di Iveco e di innumerevoli altre multinazionali straniere che investivano nel paese.
Mi querida tia Maruja mette al mondo in ordine di apparizione: Jorge, Sandra, Juan Carlos e Roberto, mentre Teca si limita a 3 figli: Maria Antonietta, Silvestre Jr e Cristina che, oltre ad essere i miei cugini, rappresentano quello che per me sarà l’anello di congiunzione con il Venezuela, inalterato nel tempo. I primi 40 anni della mia vita, infatti, si sarebbero snodati in continui e ripetuti incontri nei posti più belli del mondo con le mie zie ed i miei cugini.
Ma torniamo a me…..galeotto fu l’incidente che fece conoscere quelli che sarebbero divenuti i miei genitori.
Il viaggio in Europa finisce ed il ritorno a Caracas serve per l’organizzazione delle nozze tra i mie genitori, mentre mio padre qualche mese dopo, in perfetta sintonia con l’eroe dei due mondi, organizza il viaggio che lo porterà in quella terra da lui definita selvaggia. Come viaggiò dagli Appennini alle Ande????
Con il ‘vapore’, ovvero con una traversata di circa 25 giorni, con tanto di colpo di scena degno di un film! Se avete visto la pellicola Sliding Doors potrete capire: l’avvocato si imbarca a Genova, forse al tempo anche animato dai migliori propositi e sentimenti, affascinato dall’aventura che era in procinto di vivere, ma completamente ignaro del fatto che, avendo deciso di anticipare la traversata di una settimana, -a tal proposito non si è mai capito se per fare una sorpresa a Loló o, magari, solo per timore di arrivare a destinazione tardi o chissà per quale altro recondito motivo-, mentre lui navigava verso Ovest, dall’Est era appena stato spedito un telegramma, in cui mia madre gli chiedeva di non partire più, perché aveva preso in seria considerazione di annullare le nozze.
Bene. Forse questo è l’inizio della fine o forse no, ma di sicuro è l’inizio del ‘culebron’ della famiglia Rossi-Leopardi.
I miei nonni paterni, non potendo in nessun modo avvisare il figlio, si mettono in contatto con Caracas avvisando dell’avvenuta partenza del ragazzo e del suo ormai quasi imminente arrivo in quella terra tanto bella quanto selvaggia.
Colpo di scena, è necessario riscrivere la sceneggiatura, mentre il regista occulto della vita aziona un rewind il cui risultato sono le sfarzose nozze che si terranno il 28/05/1954 a Caracas, alla presenza di personalità provienienti da ogni settore della vita politica culturale ed economica del paese. Il testimone di nozze di mia madre sarebbe stato, giusto per capirci, proprio Perez Jimenez, il capo di Stato della terra di Simon Bolivar.
Conservo ancora le foto di questo matrimonio e, seppur guardandole e riguardandole, non ho mai più visto nulla di simile soprattutto in riferimento alla quantità e qualità dei regali, molti dei quali ancora oggi sono esposti nelle case dei tre figli o nascosti in valigie riposte in cantina. Non ho mai saputo il perché del dietro-front vagheggiato e mai realizzato di mia madre, ma alcune idee me le sono fatte: la giovane eta’ di mia madre, il futuro trasferimento in Italia in una piccola cittadina come Ancona e forse tanti altri pensieri a me sconosciuti….morale della favola incomincia la vera avventura.
Inutile dirti che spesso rifletto su cosa sarebbe successo (o non successo) se i miei genitori non si fossero sposati.
Smaltita la sbornia e riposti i regali si prosegue secondo il copione. Siamo giunti al momento in cui il matrimonio si consuma e meno di un anno dopo, il 25 maggio del 1956 nasce a Caracas Maria Eugenia. Dopo le nozze Lolo si trasferisce in Italia, precisamente ad Ancona, dove in pochissimo tempo si ambienta anche aiutata dal fatto di essere bilingue fin dalla nascita.
Ciò nonostante decide di far nascere la sua primogenita nel suo paese natale e, sulle ali dell’entusiasmo, ecco che vengo messo in cantiere anche io che mi affaccio al mondo il 29 luglio del 1958. Questa volta, però, il parto avviene nelle Marche ma niente paura perchè trascorrono meno di 2 mesi quando, per la prima volta, attraverso l’Atlantico a bordo di un volo Alitalia Roma-Caracas, 4 scali e cabina non pressurizzata. Questa esperienza segnerà per sempre la vita e non escludo la possibilità che ci si sia incrociati a Maiquetia, in uno dei tanti spostamenti tra Europa e sud America che avrei vissuto negli anni a venire.
Sono sicuro che durante tutti i transiti in aeroporto a Caracas io possa aver incrociato tua nonna, ma sono altresì convinto che le nostre nonne si siano sicuramente trovate in qualche salotto della Caracas bene, altrimenti nn ci saremmo conosciuti.
Ci deve essere un filo conduttore.
Sebbene i primi nitidi ricordi del Venezuela elaborati dal mio cervello partano dal 1963-1965, credo che la mia testa abbia sin da subito incominciato inconsciamente a metabolizzare poco a poco tutta una serie di sensazioni, dal clima alla vegetazione, dal traffico alla gastronomia, dalle feste con bambini a me sconosciuti a pallose visite a parenti decrepiti che ogni hanno non potevano perdersi per nulla al mondo i progressi miei e di mia sorella Maria Eugenia, in particolari modo non mancava mai il coro di consigli non richiesti da parte del parentado: “Conosco un dottore ‘fabuloso en Miami’, ‘a no no! El mejor es fulano de tal de Nueva York……no le pares bola ……ve donde el Dottor Smith en Boston’…e così via.
Perché vi racconto questo? Solo ed esclusivamente perché il mio nome sarebbe apparso da lì a poco sul libro di un sedicente dottore cubano di Miami al quale terrorizzate si rivolsero mia madre e mia nonna con il supporto delle zie. In questo testo il dottore spergiurava che non sarei mai stato più alto di 165 cm. Tutti avviliti e con facce scure, i miei parenti iniziarono a coniare per me una serie di soprannomi, tra i quali il più utilizzato fu Felito (piccolo Raffaele). Per la cronaca oggi sono alto 189 cm ma, passando alle cose serie, devo dire che il più bell’ insegnamento che ancora oggi serbo gelosamente e la capacità che imparai presto ad avere, di rispettare sempre chi è diverso da noi. Mi riferisco alla popolazione di colore con la quale ho avuto la fortuna di interagire fin dai miei primi anni di vita e che da lì a poco mi avrebbe fatto capire che il diverso potevo essere io, quindi il motto che ancora oggi mi accompagna è rispettare per essere rispettati.
Per diversi anni la nostra vita scorre tra inverni in Italia e prolungate estati venezuelane, era sempre un’emozione partire alla volta di Caracas anche perché mia madre e mia nonna non riuscivano mai ad arrivarci con un volo diretto, ci volevano sempre almeno 2 scali, uno europeo ed uno a scelta tra New York e Miami. Con noi viaggiava sempre ‘la cargadora’, si chiama Angelita Alguacil, originaria di Logrogno, città basca situata nel nord della Spagna. La tata era stata assunta giovanissima dai miei nonni durante la loro permanenza madrilena e li avrebbe poi seguiti in Venezuela per tornare infine con noi in Italia, dove rimase fino alla fine dei suoi giorni, trascorrendo più di 40 anni con la nostra famiglia.
Aveva visto nascere mia madre e vide nascere Maria Eugenia e me. Ma soprattutto avrebbe visto venire al mondo anche Elisabetta il 19 ottobre del 1967, terzo figlio cercato da Giorgio e Lolo, nel tentativo di raddrizzare in qualche modo un matrimonio che gìa dava forti segni di cedimento, che, inutile dirlo, avrebbe fatto da effetto placebo solo per poco tempo.
La tata era l’accompagnatrice dei fratelli Rossi a tutte le feste alle quali venivano invitati, alcune delle quali venivano addirittura organizzate proprio in nostro onore, per ‘ los Hijos de Lolo que viven in Italia‘.
Si dividevano tra pinatas y/o meriendas e, forse per la mia giovanissima età, riuscivo a trovarle perfino divertenti.
Quando invece ‘no habia programa’ si andava al Caracas Country Club ed il pomeriggio si trascorreva tra la cancha de tenis, la piscina ed i meravigliosi panini con della carne fantastica che si chiamavano pepitos. Alle volte festeggiavo così il mio compleanno e a tal proposito me ne ricordo uno in particolare. Quel 29 luglio fu proprio madre natura a volermi fare una sorpresa molto particolare, di certo il regalo che noi mi sarei mai aspettato. Il 29 luglio del 1967, infatti, intorno alle ore 20:00, per circa 30 o più secondi Caracas tremò. Ricordo abbastanza nitidamente il boato che lo precedette, a nove anni ero vergine sull’argomento e onestamente avrai fatto tranquillamente a meno di imparare che la terra potesse tremare con tale violenza. Ma destino volle quella stessa calamità naturale si ripresentasse con la sua stessa forza nella mia vita anche negli anni successivi.
La tierra de el caribe entra sempre di più a far parte di me, e a nulla portano i tentativi di mio padre che disperatamente cerca in tutti i modi di inculcarmi il concetto che quello sia un paese di selvaggi. Devo però riconoscergli uno spirito di conoscenza ed avventura che a molti venezuelani mancava, ovvero la voglia di esplorare più a fondo quella terra. Quella stessa sete di conoscenza la porto ancora dentro me, una curiosità innata che mi ha portato a fare meravigliosi ed avventurosi viaggi anche ‘en el interior del pais”. Mio padre viaggiava in occasione delle poche volte che, per brevi periodi ci raggiungeva a Caracas, mentre in Italia adoperava il suo tempo non solo per lavorare e per occupare quante più cariche di potere potesse, ma anche dedicandosi con dedizione al suop hobby preferito: le donne.
Come spesso però accade, per me in maniera incomprensibile, il matrimonio durò fino alla scadenza naturale del contratto e cioè fino al 08/06/2002, data in cui la mia adorata madre decide suo malgrado di ascendere verso quei cieli che tante volte aveva attraversato. Per inciso, trascorso appena un anno dalla sua scomparsa, mio padre alla veneranda età di 74 anni, mi comunica di essersi risposato con una donna il cui nome evito di trascrivere, poiché il solo suo pensiero evoca in me un nutritissimo vocabolario di parolacce multilingue.
Negli anni precedenti, a nulla portarono i consigli di Maria Eugenia e del sottoscritto che miravano a far tornare mamma a Caracas, dove aveva una meravigliosa quinta ad aspettarla e dove sarebbe stata coccalota e viziata da sua madre Pepita, dalle sorelle Maru e Teca e da un innumerevole stuolo di amiche ed amici d’infanzia. Mia madre fu irremovibile e non si volle muovere da Ancona, atteggiamento tutto sommato comprensibile finchè noi figli eravamo ancora piccoli, ma piuttosto inspiegabile quando poi raggiungemmo la maggiore età. Lolo si occupava delle pubbliche relazioni di mio padre, presidente della Stamura basket di Ancona come della Lega basket, del Rotary, del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati, ma anche vice presidente ed amministratore della cassa previdenza degli avvocati, vice presidente del consiglio nazionale forense e chi più ne ha più ne metta. In poche parole mio padre era un uomo ingordo di potere, seppur seppe sempre e comunque gestire questo suo lato in modo educato e garbato. Dietro a tutte queste cariche, tuttavia, non c’erano solo le capacità di mio padre, ma ci fu sempre molto di quella donna che decise di accompagnarlo per sempre, pur dovendo ingoiare bocconi amari. Per lei esistevano solo Menia, Raffo e Betta e solo la morte l’avrebbe separata da noi. E così fu.
Non essendo un fine dicitore faccio fatica a trovare la fine, forse perché essendo un sognatore vorrei che questa storia non finisse mai. Forse il fatto di aver colto i miei sentimenti e percepito il mio amore per quella terra è stato il motivo che ha portato la mia famiglia venezuelana a volermi come testimone di nozze…dei 7 matrimoni dei miei 7 cugini.
Erano viaggi che mi uscivano fuori da un fianco e quindi i più belli, anche se l’incubo di dover entrare in chiesa con 32 gradi umidi ed indosso un thight non sempre appropriato alla stagione e di dover stare sotto la luce dei riflettori (simili alle luci che vedi nei film americani durante l’interrogatorio di un presunto omicida nel commissariato di polizia) che innalzavano di almeno 3/4 gradi una temperatura già per me a dir poco insopportabile non mi abbandonava mai.
Erano sempre matrimoni in pompa magna, in occasione dei quali, in qualità di testimone, mi toccava entrare in chiesa tra due ali di invitati che ti sottoponevano ad una vera e propria tac alla ricerca del minimo difetto su cui argomentare nei giorni a seguire. Poi ti aspettavano serate affollatissime, trascorse tra signore che si scambiavano baci e uomini che si davano amichevoli pacche sulla spalla. Per un paio di ore resistevo ma poi si affacciava il problema, i camerieri -in numero quasi uguale agli invitati- avevano una un’unica missione: girare tra i conviviali e cambiare il bicchiere da cui stavano bevendo (generalmente ‘champanito’ o ‘wiskesito’), non appena lo vedevano consumato poco più sotto della metà. Questo comportava il fatto di avere una mano perennemente occupata per tutta la durata del ricevimento, per di più da alcolici non proprio leggeri. Poco a poco il cervello andava inesorabilmente in fumo e quale modo migliore per mascherare l’euforia che non invitare a ballare ogni donna presente in sala, senza alcuna distinzione di età?!? Quello era il solo momento in cui riuscivi ad avere le mani libere, salvo fermarsi a respirare e ritrovarsi di nuovo un bicchiere pieno tra le mani. Un’altra faccia del Venezuela che ho sempre visto. Vivrò ricordando la bellezza di quella terra, la bellezza di quellla gente e qui mi riferisco a poveri e ricchi indistintamente. Ricordando la meraviglia regalata da quei tramonti rosa, rossi e gialli, il cielo che pensi di poter toccare con un dito, Salto El Angel, Los Roques, Morrocoy, Merida, el desierto de Coro, los llanos, el Ávila…
Credo che potrei continuare all’infinito, come infinito è l’amore per quei posti.
Spero che mi concediate di citare le parole di una meravigliosa canzone di Bertin Osborne:
“Y si un día tengo que naufragar y un tifón rompe mis velas, enterrad mi cuerpo cerca del mar, en Venezuela”.
Grazie Francesca.
Raffaele Rossi
Grazie a te Raffo, con tutto il mio cuore!
Raffaele Rossi è il il nome registrato presso l’anagrafe italiana, mentre per quella venezuelana il nome completo risulta essere Pedro Rafael Rossi Leopardi, nato ad Ancona il 29 luglio del 1958. Una vita trascorsa alternando inverni italiani a lunghe estati venezuelane. Elementari, medie e liceo scientifico frequentate in Italia, oltre ad alcuni anni di collegio tra Ancona, Bassano del Grappa, Roma e Bologna. Dopo la maturità conseguita a Bologna con 56/60 nel 1977, Raffaele consegue la laurea in ingegneria meccanica. Servizio di leva in areonautica e nel 1989 organizza la linea marittima Ancona Sali Zara in aliscafo. Nel 1993 fonda l’agenzia di viaggi Apostrophe che ancora oggi rimane la sua principale attività. Segno zodiacale leone, Raffaele si definisce “un acuto osservatore della realtà che mi circonda”, cosa che adora fare senza giudicare perché un caposaldo del suo pensiero è ‘vivi e lascia vivere’. “Una marea di difetti albergano dentro di me, ma con gli anni cerco spesso di ingabbiarli. A volte ci riesco. Mi considero un educato e romantico sognatore e non amo sparlare, credo molto in due detti popolari ma sempre attuali. Dicendo la verità si perdono gli amici. Molti nemici, molto onore! Ho 56 anni ma la gente dice che ne dimostro 10 in meno e ora che sono dimagrito le amiche riconoscono di essere in gran forma!”. Con il passare degli anni, mentre si accumulano gli impegni quotidiani, gli studi, le donne, le vacanze in giro per il mondo, gli amici e gli impegni sportivi (Raffaele è stato per circa 20 anni arbitro di basket arrivando ad arbitrare fino alla serie A maschile e femminile), il tempo per tornare in Venezuela è stato sempre meno. La voglia di andare non mancava mai ed il richiamo era sempre più forte tanto è vero che ogni tanto prendeva il primo volo disponibile per quella magica terra. Troppo forte il richiamo della terra, dei panorami, dell’amore verso zie e cugini, delle spiagge tanto amate. Raffaele mi racconta che in ogni volo sceglieva il posto finestrino sulla destra dell’aereo, per potersi godere, durante l’atterraggio, il litorale di Catia e lo stagliarsi della cordigliera andina che nasce dalle alture a ridosso di Maiquetia. “Ogni volta, esauriti i convenevoli di rito, ovvero dopo essermi ingozzato con pabellón crollo, fervido, della carne alla brace e un ‘bien me sane’ in cambio di cremino Fiat, fagiolini verdi (solo se in stagione), olive all’ascolana (che dovevo surgelare), lumachine di mare in porchetta, salamini e ciauscoli, in una sorta di scambio del carrello della spesa tra trafficanti di cibo, mi sentivo veramente emigrante ma provavo una gioia immensa nel vedere i loro visi così contenti di riassaporare prodotti che lì nn si potevano trovare”. Esaurita la fase in cui ci si rifocillava, aveva di solito inizio una riunione tipo consiglio di amministrazione da grande azienda per pianificare il 20-25 giorni di vacanza tra ‘fin de semana a Margarita’, ‘una ida y vuelta a Los Roques con avioneta de algun compiacente amigo’, ‘la festa, la cena, la bora, el cocktail’…così che quei giorni passavano all’insegna del divertimento e delle sbornie più incredibili. Sì, perché come (e quanto!) si beve in Venezuela! Alla fine, mi permetto di citare la padrona di casa Francesca,…vivere (sopravvivere) per raccontarla”.