La prima casa di mia nonna in Venezuela: quinta Japayumar
Raggiungendo Macuto, lungo il litorale centrale, ai piedi della Cordillera de la Costa, in lontananza si stagliavano le famose spiagge che Tony le aveva descritto in diverse lettere, che godevano di un clima tropicale caldo ma ventilato, in contrasto con la vicina La Guaira, leggermente più arida e calda. Lungo le strade, oltre ad alte palme da cocco, si scorgevano diverse piante da frutto: giganteschi manghi, alberi di hicacos, guanabanas, cotoperi e mamey.
Dopo aver trascorso l’intero viaggio in auto seria e silenziosa per via dei connotati mutati di mio nonno, una volta percorsa Calle Real, mia nonna si ritrovò davanti all’ingresso di una elegante e bellissima casa coloniale: Quinta Japayumar (quinta significa villa).
In Venezuela non vi è, né tantomeno vi era ai tempi, l’abitudine di assegnare alle abitazioni un numero civico e, soprattutto nelle zone residenziali, le villette, tutte molto simili tra loro e con ampi prati all’inglese, hanno in genere nomi propri.
Le pareti esterne di quinta Japayumar erano color pervinca e i bassi tetti ricoperti di tegole rosse. La casa era spaziosa ed in perfetta architettura coloniale, costruita lungo il perimetro con i porticati affacciati su un ampio e ventilato patio interno.
Un po’ turbata dai mesi trascorsi senza vedersi e dalla strana sensazione di trovarsi davanti un neo sposo abbronzato, barbuto e assai diverso da quello che ricordava, mia nonna Lydia chiarì immediatamente a Tony che LUI avrebbe dormito sul chinchorro (o amaca) appeso nel patio per qualche tempo. Una notte, accaldata , era scesa in cucina per bere un bicchiere di acqua che portò alla bocca distrattamente con lo sguardo perso al di là della finestra, in direzione del patio e dell’amaca su cui dormiva mio nonno.
Pensò di avere le allucinazioni quando le parve di vedere l’intero giardino muoversi con moto ondoso e cercò di mettere a fuoco. Fu quella notte che mia nonna scoprì il vero prodotto nazionale: la cucaracha. Qui le chiamate blatte o scarafaggi e credetemi, le vostre altro non sono che cuginette piccole e lontane della cucaracha tropicale.
Ho scoperto a 26 anni che le vostre blatte camminano molto velocemente ma non volano. L’ho scoperto quando anni fa il mio gatto aveva pensato bene di portarcene una in casa e io mi ero arrampicata su quello che a breve sarebbe diventato mio marito urlando: “prendi una scarpa! Questa vola e ci sta puntando!”. Mi ha preso in giro molto a lungo per questa mia certezza, fino a quando, una volta in Venezuela è stato investito da uno stormo di cucarachas volanti e veloci come proiettili.
Tornando a mia nonna, mi raccontava che l’incontro con le cucarachas la lasciò insonne non solo quella notte, ma a lungo nelle notti successive. Imparò presto a familiarizzare con quelle immancabili e indebellabili mascotte, così come imparò nel giro di poche settimane a spostarsi per la città a bordo di sgangherati e rumorosi carritos che a tutta velocità sobbalzavano sulle strade cittadine per lo più sterrate, polverose e piene di buche. Percorrendo la stretta lingua di terra affacciata sul Golfo del Caribe scoprì che quella era una zona densamente popolata.
Da Ovest ad Est si susseguivano i centri industriali di Catia la Mar, Maiquetia e La Guaira, fino alle spiagge più note e frequentate, dotate di stabilimenti balneari dove i Caraqueños (abitanti di Caracas) si trovavano nei fine settimana.
Le strade strette di La Guaira risalivano lungo le pendici della collina, tra fatiscenti ranchitos (case abusive) di mattoni e lamiere e qualche rara villetta del periodo coloniale sopravvissuta, retaggio della dominazione spagnola. Circa 4Km dividevano La Guaira da Macuto, le cui coste erano in perenne costruzione, con alberghi e resort che spuntavano come funghi.
Poco più in là si poteva visitare Caraballeda, un centro balneare con un porticciolo turistico dotato di boutique, ristoranti e belle spiagge.
Questi e altri villaggi lungo la costa avevano ognuno la propria spiaggia ricca di palme e si presentavano come pittoreschi e colorati villaggi immersi nella folta vegetazione tropicale. Conobbe però anche la Caracas progressista e moderna di quegli anni, il Centro Bolivar di recente costruzione, complesso di grattacieli, uffici, centri commerciali, viali alberati ben curati e garage custoditi.
Scoprì quartieri mondani e pieni di hotel, caffè, locali notturni, piano bar, centri commerciali alla moda dentro i quali sorgevano vere e proprie mini città in cui muoversi indisturbati ed in totale sicurezza fino a notte fonda. Scoprì quanto incredibilmente americana e cosmopolita potesse essere quella città così frizzante, frenetica e vivace.
Sono certa che rimase affascinata proprio da quella sinergia data dal progresso di derivazione chiaramente statunitense e dall’atmosfera rarefatta ed esotica dei Caraibi.
La stessa che affascina e commuove me quando ripenso al mio bel Paese, la stessa che per volere dell’ultimo Governo oggi non esiste più e ha lasciato spazio solo alla povertà, alla delinquenza, all’arretratezza e alla dura verità che anche il paese più bello e ricco di potenziale del mondo da solo non va da nessuna parte.