Adoro gli aeroporti. Li ho sempre sentiti famigliari, una specie di seconda casa.Pur amando molto guidare e viaggiare in auto (in verità solo quando guido io), ho sempre preferito l’aereo a qualsiasi altro mezzo di locomozione. Mi ha sempre affascinato la corsa contro il tempo ed il fatto di riuscire a percorrere tantissimi km in poche ore. Sarà che sono salita sul mio primo volo a 3 giorni di vita, sarà che in aereo ci sono praticamente cresciuta tra i mille spostamenti Caracas-Porlamar e i vari traslochi Venezuela-Italia che hanno caratterizzato la mia infanzia. Gli aeroporti sono stati una costante nella mia vita. Ricordo che da bambina la strada per l’aeroporto di Margarita era tra quelle che più spesso percorrevamo durante la settimana. Sull’isola non c’erano ancora le strade cementate che esistono oggi e raggiungere l’aeroporto Santiago Mariño poteva richiedere molto tempo, sballonzolati su strade sterrate dalla terra rossa. Ogni venerdì sera, immancabilmente, andavamo a recuperare mia nonna e mio fratello che arrivavano da Caracas.
In quegli anni non esistevano tunnel di collegamento dal terminal all’aereo, nè bus che permettessero di non dover attraversare a piedi la pista di atterraggio. Ricordo con grande nostalgia quegli attimi che precedevano un decollo o seguivano un atterraggio, il vento forte sollevato dai motori, il caldo umido nel naso, l’odore di tropici e terra bagnata che sentivo immediatamente, il rombo dell’aereo, l’umore alto quando atterravo, il cuore rotto quando andavo via. Spesso ci riunivamo per un pranzo o una cena in uno dei bar e ristoranti che abbondavano lungo il terminal dei voli internazionali di Caracas, tra un negozio che vendeva caffè aromatizzato alla vaniglia, al rum o alla cannella ed uno dei tanti duty free. Capitava di cenare con un “lomito vuelta y vuelta” e un po’ di arroz blanco e di salutarsi così fino alla settimana successiva. Allora le linee aeree arrivavano tutte in Venezuela ed offrivano anche un meraviglioso servizio. Esistevano ancora voli internazionali diretti sull’isola. Proprio ultimamente, in una delle chiacchierate nostalgiche sul Venezuela con i miei amici Cono e Odilia, è capitato di ricordare i voli nazionali a bordo degli aerei della Viasa. Le hostess sempre bellissime ed eleganti e le immancabili caramelline di benvenuto, le noccioline o il pan de jamon durante le festività natalizie.
Non era nemmeno così insolito per me vedere partire e tornare mia madre o mio padre ogni settimana. Adoravo salutarli con la manina dalla terrazza panoramica dell’aeroporto. Loro mi assicuravano ogni volta di avermi vista sbracciarmi come una pazza. Ho capito molti anni dopo che la distanza dalla pista prima, e dal cielo dopo (e viceversa), non permettevano assolutamente all’occhio umano di vedere fino alla terrazza del bar dell’aeroporto, ma mi fa tenerezza pensare a quanto mi assecondassero ogni volta pur di strapparmi un sorriso mentre piangevo per il fatto di vederli andare via. Gli addii.. Sì, gli addii di cui parla Cono qualche riga più in là hanno sempre fatto paura anche a me. Negli anni ho salutato tra le lacrime molte persone. Mia madre varie volte all’anno (e la cosa succede tuttora), alcuni amori, qualcuno perso per sempre, qualcuno ritrovato, e molti amici. Ricordo due addii particolarmente strazianti della mia vita, che hanno a che vedere con la sfera del viaggio: il primo a 23 anni. Era la notte di Natale e io avevo “festeggiato” sola in casa fino a quando non mi aveva raggiunto il mio amico Luca.
Litri e litri di lacrime versate dopo l’ennesima discussione con l’amore di allora. L’amico di sempre accanto a prepararmi caraffe di camomilla e la valigia, mio padre fuori dal portone all’alba per portarmi a Malpensa, mia madre preoccupatissima che mi aspettava dall’altra parte del mondo. Qualche ora dopo mi sarei ritrovata seduta al gate con il cuore spezzato, pregando di vederlo arrivare. Nonostante il litigio, nonostante tutto. Il suo biglietto aereo in borsa, l’ingenuità ed il candore dei 20 anni.
E poi ricordo quelle interminabili 10 ore di volo tra i singhiozzi, accumulando kleenex appallottolati sul sedile accanto al mio (vuoto). Nemmeno un mese più tardi lo avrei visto arrivare a Margarita chiedendo scusa, certo che saremmo rientrati insieme in Italia, ma dopo una breve vacanza comune di 2 settimane, lui sarebbe tornato a Milano da solo, mentre io sarei rimasta in Venezuela altri 4 mesi.
Il secondo addio lo avrei vissuto due anni più tardi. Dopo nove mesi tremendamente difficili trascorsi a ripetere a mio padre che sarebbe andato tutto bene e che ce l’avrebbe fatta, accettai di partire per lavoro per un tour che mi avrebbe tenuta lontana da Milano per un mese e mezzo. Ricordo di averlo salutato con un abbraccio e uno sguardo pieno di amore, sapendo che ci saremmo rivisti altrove, in un’altra dimensione e che non sarei tornata in tempo per riabbracciarlo. Non mi sono mai pentita di questa scelta, oggi come allora mi basta sapere che quello fu un tacito accordo tra noi due. Ci scrivemmo molto.Ci sentimmo fino alla fine. Quel giorno di fine novembre, quando tornai, capii che il primo addio non era significato poi molto e imparai così che una storia che genera in noi sofferenza e ci fa piangere non ha in sè nemmeno l’ombra dell’Amore. Mio padre, al contrario, meritava ognuna delle lacrime che avevo versato in silenzio e tutto il mio amore. E poi lui sì che era un viaggiatore e un uomo di mondo! Nella mia vita, nonostante io abbia ormai quasi 34 anni, non ho mai interrotto il mio strano rapporto con gli aeroporti. Tuttora, infatti, li visito con frequenza in occasione dei viaggi di mia madre. Quando devo viaggiare adoro arrivare in aeroporto con molto anticipo. Mi piace consegnare la valigia, dedicarmi alla scelta di infinite letture “da viaggio”, intrattenermi per un po’ in qualche bar, mandare messaggi di saluto e partire con un’ottima play list da ascoltare a ripetizione. Una volta in volo non dimentico mai di acquistare il mio mascara e la mia terra per il viso e posso giurarvi di aver sempre comprato entrambi ad alta quota e, quando non mi è stato possibile farlo in prima persona, di averli ricevuti in regalo da mia madre di ritorno da uno dei suoi viaggi aerei. Credo che la storia della mia famiglia sia inevitabilmente legata ad aerei ed aeroporti e il fatto che mio nonno sia arrivato in Venezuela più di 60 anni fa proprio per avviare l’aviazione civile nel paese e che mia nonna abbia inaugurato le sue primissime attività lavorative proprio sulla pista dell’aeroporto di Maiquetia mi fa riflettere. Mi sono dilungata decisamente troppo e mi scuso, ma il pezzo che segue e a cui vi lascio, scritto dal mio delizioso amico Cono, mi ha conquistata e, come sempre, è riuscito a portare a galla centinaia di ricordi e sensazioni che avevo archiviato chissà dove nella mia testa. Grazie Cono, grazie per la sensibilità con cui animi e colori tutto ciò che scrivi.
Gli aeroporti
Di: Cono Carrano
《Gli aeroporti sono agglomerati di gente, persone che arrivano, persone che partono, persone che aspettano altre persone, persone che salutano altre persone. Spesso mi sono fermato a pensare, a guardare lo sconosciuto che ho di fronte, in fila al check-in, seduto nel tavolino di un bar, in attesa all’imbarco, e mi sono chiesto, chi è? Chi è questa persona? Qual è la sua storia? Alla porta d’imbarco dell’aeroporto di Malaga, in partenza per Lisbona, nell’attesa, per qualche istante ho posato il mio sguardo apparentemente distratto su un’ anziana signora, nessun segno distintivo, capelli bianchi, occhiali, di media altezza e vestiti semplici. Saliti sull’autobus che dall’uscita ci portava al piccolo aereo che ci avrebbe condotto verso la capitale del Portogallo, le accenno un sorriso e le do la precedenza facendola sedere in uno dei pochi posti liberi, io rimango in piedi, sono giovane e forte. Lei sorride e ringrazia.
Una volta sull’aereo, un velivolo di 20 posti unici e tutti con finestrino, la signora occupa quello alla mia destra. Preparandoci al decollo, rimango intento a fissare l’elica che comincia a girare velocemente fino a non distinguere più le singole palette, comincia la corsa che in meno di un minuto ci fa lasciare il suolo e ci spinge verso le nuvole, girandomi verso di lei mi accorgo che con il viso verso il finestrino la signora piange, grosse lacrime scendono dalle sue guance e invano tenta di asciugarle con le dita. Chissà chi era quella signora? Qual era la sua storia? A chi e a cosa era rivolto il suo pianto? Chi e cosa lasciava? Una figlia, un figlio, un nipote, un paese?Inevitabilmente sono retrocesso nel tempo, con la memoria ripercorrevo tutti i miei addii, in stazione, in aeroporto, sul portone di casa. Temo gli addii, li temo, li temo quasi come temo la morte. Quella signora e il suo pianto mi toccarono profondamente, al punto di commuovermi, cercando di non soffermarmi troppo coi pensieri alle persone e i luoghi che ho dovuto salutare》.
Cono Carrano