Grazie come sempre al mio meraviglioso amico Cono Carrano per aver scelto questo blog come contenitore dove custodire i propri ricordi più belli. Ne sono lusingata.
Ecco a voi un’altra storia ricca di emozioni e sensibilità che ci riporta indietro nel tempo, in altre dimensioni ed epoche.
I ricordi
di Cono Carrano
Affiorano, riaffiorano, emergono, riemergono, appaiono, riappaiono, compaiono, ricompaiono, tornano, ritornano. Si insinuano, entrano, popolano e vivono nei nostri sensi. I ricordi.
E non hanno un ordine, non lo seguono ed è così che senz’ordine, li racconterò a Francesca, che per affinità elettive e coordinate cosmiche azzeccate dalla forza del destino, è oramai custode ufficiale, autorizzata ed assoluta della mia memoria. Forse, come mia nonna Vincenzina, tengo più ad alcune cose che ad altre.
Ho preferito spazzare il pavimento del balcone, strappare le foglie secche, riposizionare i vasi e annaffiare le piante, che disfare la borsa e ordinare e riordinare il caos vecchio e nuovo della mia stanza. La lavatrice in funzione interrompe il silenzio della casa sola, e io mi siedo per qualche minuto sulla sdraio del balcone; stendere al sole e al vento di questa giornata di primo settembre, le lenzuola profumate alla lavanda del primo bucato dopo questo viaggio, è quasi un’azione rilassante, distensiva, che mi porta e mi consegna alla rassicurante quotidianità.
È curioso, penso a quanto sia proprio la quotidianità, a dettare regole, a dare scadenze e senso alle nostre giornate. Gli occhi si posano sulle lenzuola color crema a fiori marroni, che ondeggiano scagliandosi sul muro verde salvia e la mia mente macina ricordi come una locomotiva a carbone d’altri tempi.
È altrettanto curioso come l’odore acre del detersivo in polvere e il profumo dolce dei panni bagnati, mi abbiano trasportato da una città all’altra…
Improvvisamente di anni ne ho otto, e mi ritrovo in uno di quei pomeriggi a casa della (bis)nonna Gaetana a Francavilla, quando dopo il pranzo tutti andavano a riposare, dividendosi di comune accordo tra le poltrone e i letti disponibili. Mentre quasi tutti dormivano e qualcuno socchiudeva gli occhi davanti alle immagini offuscate di una tivù che ‘parlava’ da sola, nel silenzio ovattato e sonnecchiante di quella casa e senza saper che fare, io mi inoltravo passo dopo passo, su per gli scalini stretti di quella ripida scala di granito grigio che portava al secondo piano, e mi intrufolavo nella lavanderia.
Era uno stanzino minuscolo dai muri spessi, bianchi, antichi, potevo sentirne con le mani tutto il peso degli anni.
Con annoiata curiosità mi aggiravo per lo spazio angusto, rovistavo tra i cassetti di un mobiletto di legno scolorito, aprivo e chiudevo sportelli, annusavo i flaconi di ammorbidenti fioriti e sprofondavo le mani, le dita, stirandole e muovendole, tra i granelli bianchi e le particelle azzurre delle scatole dei detersivi dal tipico odore che ricorda il limone o lo zenzero.
Mi soffermai sull’uscio della porta finestra dagli infissi di legno pesante verde scuro, scoloriti e crepati dal sole. Mi intrufolai tra le alte ante socchiuse, facendomi strada col piede sinistro e rimanendo per un momento dal tempo indefinito, immobile e sospeso, con il corpo diviso perfettamente a metà tra la luce calda e accecante del sole e la ben più gentile e lieve luce dell’ombra.
Ricordo di essermi addormentato per qualche istante, cullato dalla luce, dal silenzio e dal grigio delle case che i miei occhi dominavano dall’alto.
I muri grigi delle case antiche che appartenevano a chi era lì da sempre, i muri grigi delle case diroccate, abitate dall’incuria e dell’abbandono ma che parlavano ancora di vite precedenti, il grigio del pavimento, il grigio delle scalinate, il grigio delle piazze, interrotto soltanto dal bianco delle chiese, dal bianco delle fontane senz’acqua, dal rosso scolorito delle tegole dei tetti.
Non troppo lontane le montagne abbracciavano Francavilla, montagne arse dal sole, montagne di un marrone arido e brullo, perdonate dal verde rigoglioso delle numerose palme moresche, disegnate e disposte dalla natura in modo da sembrare l’operato di un nobile giardiniere; dal verde bruciato dei fichi d’India, che si moltiplicano all’infinito e che con la loro suggestiva e selvaggia bellezza ricamano con il loro fusto di vita la montagna, ornandola del rosso e dell’arancio dei suoi frutti spinosi, così come i coralli con gli stessi colori, nobilitano le profondità marine.
Mia madre, mio fratello ed io, ci ritrovammo davanti ad una tivù spenta, una poltrona vuota, come vuoto era il letto, sorda era la cucina, sola era la sala, muti gli scalini della scala a chiocciola di legno scuro. Il silenzio che non abitò mai in quella casa ora era il nuovo padrone. Nel frigorifero una fettina di carne mai cotta, una bottiglia di passata di pomodoro aperta e incominciata, un melone d’acqua e un vassoio di fichi.
Persino il giardino della casa, la parte preferita dalla nonna Vincenzina, anche se esplodeva di vita, sembrava morto senza di lei.
Decidemmo di preparare un piatto di pasta al pomodoro, mia madre girovagava per casa come se si aspettasse di veder comparire la nonna da qualche parte, mio fratello si mise ai fornelli ed io mi occupai di apparecchiare la tavola.
I piatti bianchi della nonna. Erano lì, piani, fondi e piccoli, bianchi, al centro un mazzo di fiori di campo, spighe di grano e perlopiù papaveri. Bianchi. Sono di un bianco che in controluce risulta trasparente, un bianco che ha tenuto testa all’usura, che ha assorbito il passare del tempo, che ha attutito i colpi ma che ne porta con se i segni, che ha vissuto e che ha viaggiato, da un continente all’altro, da Punto Fijo a Francavilla.
Mi furono così familiari, forse come pochi oggetti in tutta la mia vita; quelli che per chiunque altro sarebbero stati semplici e semplicemente piatti, per me erano la macchina del tempo che mi avrebbe permesso di viaggiare da un’epoca all’altra, dal Venezuela all’Italia e viceversa.
Mi ritrovai a Punto Fijo, avvolto dalla luce di quella casa, sotto le pale di legno del ventilatore della cucina, una tavola lunga e rettangolare piena di fratelli che si rincontravano, una persiana fatta da listelli di vetro ci separava dal resto della casa, in tavola pane fresco, e le specialità della casa che io non vedevo l’ora di gustare, per poi divorare ed ingurgitarne in tale quantità da dover stendermi sul divano della sala con il mal di pancia.
Nessuno faceva meglio i calamari ripieni di Vincenza Giamboi e mai nessuno avvolgeva il pesce in una pastella come quella che Vincenza Giamboi riusciva a fare! Colgo ancora i volti giovani, quasi acerbi dei miei zii, l’innocente entusiasmo di chi ha appena cominciato la vita da adulti, impetuosi e pieni di gioia, felici in giorni felici.
Suonano le campane ed un corteo silenzioso cammina tra le vie del paese, strade grigie miste ad asfalto e sampietrini.
Mio fratello mi chiede perché i negozianti abbassano a metà le saracinesche delle botteghe, prendendolo sotto braccio e a bassa voce gli rispondo: ‘per rispetto, è una antica usanza che ancora, in paesi come Francavilla, si pratica.’
Non posso fare a meno di pensare che quella scena ahimè, l’avevo già vissuta. La mia ultima volta a Francavilla fu per il funerale della nonna Gaetana. E quella volta, per le stesse strade, in quello stesso corteo, io ero emozionato e al tempo stesso orgoglioso di seguire il feretro della nonna Gaetana a braccetto di sua figlia, mia nonna Vincenzina.
Mi sono sentito grande ed importante nelle vesti di primo nipote, grande ed importante a sorreggere la madre di mia madre.
Mentre avanzavo nel silenzio misto a bisbigli, tra gli sguardi rispettosi dei paesani, i segni della croce di chi dimesso si accostava al passaggio del corteo e sotto al sole di Sicilia, improvvisamente provai la stessa sensazione di attrito e spostamento d’aria, che si prova quando il tuo treno ne incrocia un altro in galleria; rapidi e violenti, tutti ricordi si misero in fila, uno ad uno nella mia testa. Provai sensazioni così nette, così piene da sembrare reali.
Mi sembrò di sentire la sua risata grassa ed abbondante, di sentire la sua voce alta, sentii l’odore delle polpette al sugo che mescolavano agli spaghetti nei pranzi consumati insieme, sentii il suo inconfondibile profumo di sempre, ‘Private Collection’ di Estee Lauder, lo stesso che spruzzo sul mio cuscino la sera per sentirne la presenza. La sentii per l’ennesima volta togliersi 10 anni, come l’ultima volta che la chiamai per il suo compleanno; amava ripetere senza mai omettere, la coincidenza del festeggiare gli anni nello stesso giorno di sua ‘sorella’ Elizabeth, Elizabeth Taylor.
Mi ritrovai a camminare con lei e mia madre, come quel pomeriggio per le strade del Silencio a Caracas e mi sembrò di sentire il click della macchina fotografica quando posammo insieme di fianco a quella bellissima fontana coloniale, e ho avuto la sensazione di assaporare lo stesso gusto alla vaniglia, del gelato che mangiai stringendo la sua mano in mezzo a migliaia di persone.
Mi sembrò di toccare i suoi vestiti, di sentirli sotto alle dita, sempre sobri, eleganti e perfettamente stirati. Di roteare, picchiettare, trastullare sotto ai polpastrelli le sue collane di perle, di granato e di corallo rosso.
Mi accorsi in solo istante, di quanto fosse importante quella donna per me, di quanto bene le volessi. Più di quanto sapevo, più di quanto immaginavo. Ora nonna ti vedo ballare, ballare e ballare, ballare con il tuo Leonardo, vi vedo ballare, con quei sorrisi bianchi e perfetti, sfacciatamente gioiosi, sfrontatamente felici, quelli che fortunatamente una macchina fotografica ha fermato, per portarvi sempre dentro ai miei occhi.
E ti vedo così soddisfatta nonna, sospesa tra le montagne, in quell’hotel col tuo Leonardo, così fiera, con quell’aria da DONNA.
Cono Carrano