Paula di San Paolo

di Francesca

I miei amici venezuelani lo conoscono tutti.

I miei amici italiani avranno forse avuto modo di leggere qualche suo pezzo qui sul blog.

I Ricordi di Cono sono come una carezza, un abbraccio stretto e caldo, un sorriso inaspettato. Adoro quest’uomo e adoro il suo modo di scrivere, perché le sue righe, qualsiasi sia l’argomento, riflettono luce, sensazioni, riuscendo a portarci indietro nel tempo, nei luoghi che descrive così minuziosamente, dando un corpo, un viso, una figura alle persone che racconta. Sono lusingata non solo di averlo tra i miei amici, ma anche di poter ospitare qui su Vivere per Raccontarla i suoi racconti. Grazie Cono, ti voglio bene. Grazie per questo nuovo scritto e per amare così tanto il nostro paese. Grazie per avermi accompagnata ancora una volta nei luoghi che porto nel cuore, quelli dove sono cresciuta e dove spero di poter tornare un giorno. 

Di: Cono Carrano – I Ricordi di Cono

Cara, carissima Francesca,

Si chiamava Paula, per mesi ho dimenticato quel nome, ma mai quel viso, mai quella figura. 
I suoi occhi erano grandi e verdi, il suo sguardo era penetrante e profondo quanto vitreo e assente; i suoi capelli erano color miele, lunghi, ondulati e sempre sciolti; era alta, longilinea e una delicata pelle di porcellana ricopriva la sua ossatura sottile, il tropico però, mescolando sole e cannella donò a quella pelle diafana e trasparente un velo aureo, quasi si trattasse di una cipria impalpabile e naturale.

Camminava sempre scalza, indossava solo vestiti bianchi con le spalline sottili, ampi, svasati e lunghi quanto bastava a toccare le ginocchia. Era molto riservata, e infatti nelle colazioni, nei pranzi e nelle cene dentro e fuori l’accampamento, quelle labbra rosa e carnose, pronunciavano poche parole e a bassa voce.  Il suo apparire dal niente e scomparire nel niente, le avevano definitivamente conferito ai nostri occhi, un innegabile e affascinante alone di mistero. 
In quei tre giorni di spedizione nella giungla alla volta del Salto Angel, due baschi di Bilbao, due zulianos di Maracaibo, un romagnolo di Ravenna, una puntofijana della Penisola di Paraguanà e un caraqueño del Distrito Capital, si fecero numerose e curiose domande sulla vita di quella strana creatura che era Paula di San Paolo.
Paula di San Paolo del Brasile, era l’eccezione vivente dello stereotipo di donna brasiliana che abitava il nostro immaginario. 
E Paula di San Paolo, fu l’assonanza che mi fece sorridere, fu l’assonanza che ripetei quella sera…
Dopo la cena e prima di raggiungere le rispettive capanne, ci ritrovammo ogni sera, come se fosse abitudine consumata, ad abbandonarci a piacevolissime e appassionanti conversazioni notturne. 
Con gli occhi sgranati come quelli di un bambino che sta scoprendo il mondo, gesticolando come un giocoliere nel migliore dei circhi, e con la voce alta di chi grida ad un sordo, ciascuno di noi espelleva a profusione le emozioni provate dinnanzi a quella natura che ci ospitava: selvaggia, primordiale, ancestrale. 
Lussureggiante, lussuosa, sensuale.
Verde.
Il suo verde era diverso, era un altro verde, era così verde che nessuna delle tonalità di verde che conosciamo ne potrebbe riprodurre l’intensità.
Acqua.
Acqua cheta, acqua mossa, acqua trasparente, acqua nera, acqua rossa, acqua che corre, acqua che scorre, acqua che sgorga, acqua che cade, che schizza, che esplode. Neanche la fontana danzante più grande, spettacolare e trionfale del paese più ricco sulla faccia della terra, potrebbe eguagliare la potenza e la maestosità dei fiumi e delle cascate che ho visto. 
L’uomo sembrava ancora più povero al cospetto di una natura così ricca.
In quelle conversazioni tra sconosciuti in mezzo alla foresta, ognuno di noi finì per raccontare qualcosa di sé, ma la più reticente fu Paula naturalmente; come se si trattasse di un gioco di società, lei passava il turno, e prontamente qualcheduno altro pensava a colmare il suo silenzio.
Mi disse che abitava da sola, in un appartamento in cima ad un palazzo al centro della città, e che una volta in quella casa erano in due ad abitarci. Si era laureata in medicina, e si era presa una pausa; una pausa dalla città, dalla sua famiglia, da quell’uomo, dalla sua vita. Non mi fu dato sapere altro e altro non osai chiedere a quegli occhi che non volevano ricordare. 
L’ultima sera Paula non c’era, e ci guardammo uno ad uno negli occhi senza parlarci; la domanda e la risposta rimasero sospese, finché dal nulla Paula apparse e ci disse che stava andando nel suo posto preferito. In men che non si dica ci incamminammo lungo un sentiero, tutti in fila indiana seguivamo la nostra guida d’eccezione. 
Indelebile nella mia memoria è rimasta l’immagine di quella sagoma sinuosa che ondeggiava sicura nel buio di quella notte, la luce delle nostre torce ne disegnò raggi e riflessi tra i suoi capelli, luci ed ombre attraverso quel fluttuante vestito bianco, la sua pelle sotto il bagliore della luna divenne perlacea, l’illusione fu quella di vedere una creatura mitologica, una visione, un’allucinazione. 
Quando giungemmo a destinazione, ai nostri occhi non rimase che fermarsi a contemplare quello spettacolo naturale con stupore, sorpresa e incredulità. Dalla Cascata El Hacha ci separava soltanto il fiume, il fiume che dovuto all’impressionante forza dell’acqua della cascata era ricoperto a riva da una schiuma bianca e profumata; allungai la mano e toccai la schiuma senza indugio, ne sentii tra le dita la densità, era corposa, morbida, e ad un tratto compresi come doveva essere la spuma delle acque da cui nacque Venere.
L’altezza, la larghezza e la grandezza della cascata erano tali, che quasi provai timore, una sorta di paura per qualche istante mi assalì.
L’acqua sgorgava e cadeva con tale forza e in tale quantità, che il suo colore non fu più trasparente bensì bianco, un bianco latteo e abbagliante, talmente abbagliante da fare luce nella notte, una luce enorme, l’equivalente di almeno cento lune. 
Io ne fui letteralmente scioccato, tanto che rimasi in silenzio, non riuscivo a proferire parola. 
Tutti ci sedemmo più o meno vicino, neanche gli altri parlarono. 
E fu lì che tra il fragore del rumore dell’acqua, gli strani versi di strani uccelli e il vociare di quella foresta, in mezzo alla selva alzai la testa e gli occhi verso il cielo…
Il firmamento era completamente ricoperto di stelle, saranno state milioni, talmente tante da non intravedere il nero della notte, milioni di punti brillanti, luccicanti, iridescenti e intermittenti. 
Piansi in silenzio, e muto fu quel pianto di pura felicità. 
Ringraziai uno ad uno tutti gli dei perché in tutta la mia vita non vi era mai stata notte più straordinaria di quella e mai vi fu, da allora in tante notti è quella notte che cerco.
Ora siedo solitario in questa sera estiva, il vento clemente, accarezza questo corpo affaticato dal caldo. In lontananza le mie orecchie distinguono il suono di un elicottero che sembra sorvegliare la città, il rombo del motore di una motocicletta che sfuma nel nulla, il cigolio dell’ombrellone che ondeggia sospeso sulla mia testa. La luna è alta, perfettamente tonda e il suo bagliore la fa sembrare figlia di un dio maggiore. Le nuvole sono assenti e il cielo è terso, grazie alla luna il cielo sembra stranamente azzurro, anche se è notte. 
Le stelle, le stelle sono poche, posso contarle, a mala pena ne individuo tre, forse quattro. Nessuna voce in questa notte, solo la mia, mi ritrovo a ripetere sussurrando ancora quell’assonanza: Paula di San Paolo, Paula di San Paolo…
Paula di San Paolo mi regalò la notte delle stelle, perché questi occhi posso giurarlo, videro tutte le stelle di questo mondo.

/Al mio amato, amatissimo Venezuela/

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