Gli aperitivi a quinta Japayumar e le nuove amicizie venezuelane
Dopo un primo iniziale periodo di assestamento, mia nonna iniziò ad assecondare la sua natura mondana e la sua innata predisposizione per le pubbliche relazioni, cominciando a coinvolgere il vicinato in aperitivi serali a Quinta Japayumar.
Ben presto si fece un buon giro di conoscenze ed amicizie e iniziò a frequentare animati quartieri dello shopping come Las Mercedes e Sabana Grande, oltre a diversi salotti culturali.
Iscrisse lei e Toni presso i centri ed i club privati più esclusivi della città e non mancò più nemmeno uno degli appuntamenti mondani della Caracas “bene”. Ciò nonostante non si sentiva appagata da questo suo ruolo di moglie perfetta e meravigliosa padrona di casa e, a furia di organizzare aperitivi e cene e di frequentare un po’ di locali si accorse di avere poco in comune con le sue nuove amicizie.
Secondo lei, infatti, “le donne locali bevevano decisamente troppo, si sbronzano e diventano facilmente rumorose e sguaiate”; inoltre i venezuelani avevano una percezione del tempo personalissima (questo anche oggi: “domani”, per esempio, non vuol dire domani, ma può serenamente significare “tra un mese e mezzo”, esattamente come “arrivo” e “ahora” che può voler dire “ora” come “tra 10 ore”). Il tempo è da sempre soggettivo per i venezuelani.
La mattina al mercato di Punta Mulata
La mattina Lydia si recava all’alba al mercato popolare di Punta Mulata, dove veniva fagocitata dal mondo operoso e iperattivo dei venditori. Se si voleva acquistare qualcosa, era necessario arrivare al mercato quando le temperature lo concedevano, non oltre le 6:30/7:00 del mattino, per potersi assicurare prodotti freschi e ancora non ricoperti di mosconi ed altri insetti che il caldo delle prime ore del mattino sollevava su pesci e carcasse di animali appesi al sole.
I primi raggi del sole, infatti, battendo sul tetto in lamiera del mercato, facevano maturare manghi, lechosas (papaya) parchitas (frutto della passione) nelle ceste alzando nell’aria odori acri e flotte di mosche. Appesi a ganci arrugginiti quarti di manzo sanguinolenti ed anneriti dal caldo avevano tutto fuorche dell’invitante, mentre una vecchia mulatta scacciava via le mosche a colpi di straccio imbevuto di acqua e sapone. Raccontarvi questo mi viene molto facile perche, benché ai tempi in cui mia nonna frequentava il mercato di Punta Mulata io non esistessi ancora, a Margarita, dove anni dopo avrei vissuto, avrei frequentato spesso il mercato di Conejero sull’isola.
Il caldo tropicale porta immediatamente ogni alimento a rovinarsi e l’odore di frutta matura misto a pesce e carni lasciate al sole diventa insopportabile e nauseabondo. Ma torniamo alla Caracas di fine anni Quaranta. Il cielo era tinto di rosa e arancione, come ogni alba tropicale che si rispetti. I gabbiani urlavano alti nel cielo, ogni tanto planando aggressivamente sui carritos dei pescatori per rubare qualche pesce. Mentre Caracas si svegliava, al mercato di Punta Mulata la giornata era iniziata da un pezzo. Poco più in là gruppi di donne friggevano arepas ed empanada, mentre, in una catena di montaggio perfetta, le più anziane impastavano grandi masse di farina prima di lasciarla scivolare in un’enorme padella di olio esausto ed annerito.
Nell’aria odori e rumori di vario genere e, per quanto lo spettacolo potesse essere assolutamente pittoresco, a mia nonna venne in mente che il litorale avrebbe avuto bisogno anche di un punto vendita di beni di prima necessità meglio organizzato. Inoltre ogni mese quinta Japayumar veniva letteralmente invasa di colleghi di Toni, parte degli equipaggi di passaggio a Caracas. “Ogni mese, per almeno 2-3 giorni avevo gente per casa che dormiva e mangiava da noi”, mi raccontò mia nonna. Un giorno chiese a Toni di anticiparle del denaro e affittò un grandissimo locale, facente parte de Los Bloques, case civili in cemento. Arruolò un ristretto gruppo di operai locali e si attrezzò sin da subito per vendere carne importata dall’Argentina, già tagliata e confezionata in sacchetti.
Nel frattempo mia nonna era rimasta incinta di mia madre, la sua primogenita, ma ciò non le impedì mai di proseguire con entusiasmo l’attività appena intrapresa e di lavorare fino al giorno prima della sua nascita. Le cose iniziarono ad andare sempre meglio e le distanze tra la loro casa e il capannone iniziarono a pesarle, già che ogni mattina doveva svegliarsi alle 4:00 per raggiungere i locali commerciali. Mise in vendita la sua casa color pervinca e con il ricavato comprò un appartamento a pochi minuti dal supermercato. Nei mesi successivi continuò ad ampliare gli spazi, affittando anche i locali limitrofi e lo attrezzò con grandi cave, vere e proprie celle frigorifere contenenti grandi lastre di ghiaccio, cosa decisamente inusuale ai tempi.
Nel 1950 il supermercato Maiquetia era già importantissimo ed era in grado di offrire prodotti esclusivi, originari da ogni parte del mondo, persino dallo Stato di Israele, che allora si era appena costituito.
Inspiegabilmente, nonostante le grandi potenzialità di un paese dall’incredibile biodiversità, il Venezuela non produceva nulla ed anzi importava tutto con enormi, ovvi, dispendi economici. Tenendo presente la necessità ragionata sul catering, iniziò a pensare e a prevedere un piccolo servizio di ristorazione, grazie al quale gli equipaggi in scalo a Maiquetia, allora ancora poco numerosi, potessero rifocillarsi.
Un giorno le venne proposto proprio dalla linea aerea di aprire e gestire un catering che potesse servire tutti gli aerei di passaggio dall’America Latina e lei, senza pensarci due volte, rispose di farle avere “un contratto su cui poter ragionare un paio di giorni”.
Firmò nelle 24h successive ed acquistò un enorme capannone in lamiera, di 2000 mq proprio sulla pista d’atterraggio dell’aeroporto di Maiquetia, prima adibito alla manutenzione degli aerei, dove stabilì un gruppo variegato di uomini. “Quel giorno mi consegnarono le chiavi di casa loro con un tale slancio che capii che si trattava di un grande popolo, ingenuo ma fiducioso. Il giorno dopo andai a fare la carta di identità e, negli anni successivi, iniziai a destinare parte del denaro guadagnato alla costruzione di strade, piazze e scuole, collaborando alla bonificazione voluta da Marcos Pérez Jiménez”, mi raccontò una sera di qualche anno fa nel suo salotto di Porlamar mia nonna. Tanto per intenderci il suo numero di cedula (carta d’identità) si aggira intorno al milione. Ciò significa che erano poco più di un milione gli stranieri residenti in Venezuela in quegli anni.