la mia nascita: Caracas o Margarita?
La mia nascita era stata prevista per il 24 luglio e mio padre aveva prenotato un biglietto di sola andata Milano-Porlamar intorno al 20 dello stesso mese (fino al decadimento avuto con l’ultimo Governo, si trovavano abitualmente voli diretti per l’isola).
Credo che il mio karma sarebbe stato nettamente migliore se fossi nata sotto il segno del leone anziché del cancro.
Oltretutto, patriottica come sono, nascendo il 24, avrei sempre potuto vantare di avere in comune con Simón Bolívar giorno e città natale (avendo anticipato di 12 giorni, comunque, condivido pur sempre con Giulio Cesare il giorno di nascita, quindi non posso proprio lamentarmi).
Il pomeriggio dell’11 luglio mia madre aveva organizzato una merenda per mio fratello e i nostri cugini Lilly e Arturo e, per non farli annoiare, al nono mese di gravidanza, aveva pensato bene di tirare anche lei due calci ad un pallone (che poi non mi si sgridi se al sesto mese ho girato Formentera in quad. La mela non cade mai troppo lontano dall’albero).
La sera stessa le erano iniziate le contrazioni e le si erano rotte le acque. Aveva chiamato subito il suo ginecologo, che le aveva però risposto di trovarsi su una spiaggia della Florida, con una piña colada tra le mani e che le sue vacanze sarebbero durate ancora qualche giorno.
Così aveva fatto un salto all’ ospedale di Margarita, ma la vista di una sala parto fatiscente, di due topini, un gatto su una lettiga e di molte ma molte cucarachas (scarafaggi alati, lievemente più lunghi e stretti di quelli nostrani), pur essendo una grandissima amante degli animali, le fece pensare che la cosa migliore fosse quella di prendere il primo aereo per Caracas.
Il guaio è che l’ultimo volo era decollato intorno alle 19.00 e prima del mattino successivo non si sarebbe potuta muovere da lì, se non a nuoto. Così sabato 12 luglio salì in aereo passando totalmente inosservata, con i suoi soli 6 Kg in più e una pancia praticamente inesistente e, appena atterrata a Maiquetia, si fece portare direttamente al Centro Medico di Caracas.
Sono nata un sabato sera, blu di prussia
Sono nata alle 20.52 cianotica. Asciutta e in crisi respiratoria e con la pelle bluastra. Mia madre, da sempre affezionata ai dettagli, ha sempre definito “blu di prussia” il mio colorito di quei primi minuti di vita.
Pare che quella sera le cucarachas svolazzassero serene, tra acrobazie da 10 e lode, non curanti di trovarsi in una struttura sanitaria. Più o meno lo stesso atteggiamento delle infermiere e delle ostetriche, tutte con bigodini, becchi d’oca e retina in testa. La prima cosa che i miei poveri occhi hanno visto venendo io al mondo, quindi, sono stati del personale medico in bigodini fucxia e, subito dopo, gli indimenticabili occhiali a gatto tempestati di brillantini di mia nonna. Se a questo aggiungiamo l’essere del segno del cancro e l’aver scelto, da lassù, una famiglia così bizzarra, allora sì, per rubare una nota citazione altrui: “il mio karma mi deve delle scuse”. Mia madre mi racconta che la notte tra il 12 ed il 13 luglio fu tremenda. Quella notte eravamo nati in tre e solo io ero sopravvissuta.
Oltretutto, quando, poche ore dopo il parto, si era affacciata nella nursery per vedere come stessi, aveva visto alcuni dei neonati intorno a me con cucarachas posate sui loro visi e, senza chiedere a nessuno e senza che poi nessuno le dicesse nulla, mi aveva avvolta in un lenzuolo e portata con sè in camera. Avrebbe poi trascorso tutta la notte con me sotto braccio e una scarpa nell’altra mano, giocando a squash per allontare tutti gli animaletti in volo. Non ricordo chi, anni dopo, mi spiegò che a luglio le cucarachas danno il meglio di sé perché è il loro mese dell’amore e si accoppiano rigorosamente in volo. Se così è allora è proprio il caso di affermare che quella notte, secondo i suoi racconti, mia madre abbassò notevolmente la natalità della cucaracha caraqueña.
Il mio primo volo aereo da neonata
La mattina successiva firmò per portarmi via, lasciò che mi prendessero le impronte dei piedini (vedi foto) prima di rilasciarle il mio certificato di nascita, e prese il primo volo per l’isola, con me ancora bluastra che indossavo il braccialetto di plastica rosa della clinica. Il mio ombelico si aprì ed iniziò giusto-giusto a sanguinare ad alta quota sulla tratta Caracas – Margarita. Nel frattempo mio padre si era organizzato per raggiungerci e si trovava anche lui su un volo, proveniente da Milano.
Qualche giorno dopo il poveretto, mettendo da parte tutto il suo raziocinio ed il suo equilibrio mentale, ancora annebbiato dall’emozione per la nascita della sua seconda figlia (il primo figlio era e resterà sempre mio fratello Luca), o forse ai tempi ancora troppo innamorato di mia madre per contraddirla, accettò di sottostare ai rituali della santeria locale e rischiò di perdere la vita, oltre che l’equilibrio, in bilico su uno scoglio di Playa El Agua. Non so se si usi ancora farlo, ma ai tempi della mia nascita, il cordone ombelicale di un neonato doveva essere messo in salvo, lontano da chiunque potesse impossessarsene.
Credo che questa usanza trovi delle basi quasi scientifiche nella conservazione delle cellule staminali, ma forse è un’ interpretazione tutta mia e si tratta solo di un rituale fine a se stesso, tramandato nei secoli dalla religione pagana locale. In ogni caso il mio cordone finì in un sacchettino di tela, insieme ad un sasso e mio padre dovette lanciarlo in mare all’indietro, abarbicato su uno scoglio con lo sguardo rivolto verso la spiaggia.
Nel farlo avrebbe dovuto invocare per me la benedizione delle divinità del mare perché in cambio del mio cordone mi donassero salute, felicità e qualche altra dote. Non so se si attenne proprio a tutto il rito, ma sono certa che assecondò le usanze locali e il desiderio di mia madre almeno abbandonando il sacchetto alle profondità del mare. D’altronde non ho mai bluffato sulla natura un po’ strana mia e della mia famiglia. In quel Paese e in questo modo ha avuto inizio la mia vita!
La prima giornata al mare
A cinque giorni me ne stavo già in una cestina di vimini avvolta in lenzuolina di lino rosa sotto le palme, cullata dal vento e un “delizioso color cannella” aveva ormai preso il posto del mio iniziale “blu di prussia” (i colori sono virgolettati perché, coniati da mia madre, rientrano nella sua personalissima tavolozza cromatica mentale, insieme al “giallo polentina”, al “rosso menopausa” e all’arancio “becco d’anatra”). Non so voi ma io che ai riti un po’ ci credo, penso che il mio legame con il Venezuela sia dato anche dal fatto che un pezzo di me viva in quel mare. Insieme alla fede di matrimonio di mio marito, risucchiata dalle onde di Playa Parguito nemmeno un anno dopo le nostre nozze. In un angolo della mia casa conservo gelosamemte un pugno di sabbia di Los Roques che, quando sono particolarmente giù, lascio scorrere tra una mano e l’altra. Mi aiuta a non perdere di vista i miei sogni e a non sentirmi troppo lontana dal solo posto al mondo che mi faccia venire voglia di restare. Non l’ho rubata, l’ho semplicemente presa in prestito e giuro che non appena riuscirò a tornare, la restituirò alla sua spiaggia.