15 settembre 1977: matrimonio improvvisato in una stanza d’albergo
Vestita con un abitino di seta a fiori lei, e con un improbabile completino beige con tanto di maglietta slacciata fino all’ombelico lui (roba che nemmeno Don Johnson nelle vesti di Sonny Crockett), il 15 settembre 1977 i miei genitori convolarono a nozze, davanti ad un ufficiale civile in un albergo a Santo Domingo, con mia nonna come testimone.
Circa tre minuti prima dell’inizio del rito, ritenendo piuttosto disdicevole che la sposa non avesse nemmeno un bouquet, mio padre era corso in reception a procurarsi un fiore: una cattleya lilla “presa in prestito” dal bar della hall. Al momento di firmare il registro di nozze era oltretutto riuscito a bloccare la cerimonia, andare nell’altra stanza, aprire la valigia sul letto per avere con sé sua inseparabile stilografica Montblanc, senza la quale non si sarebbe mai potuto sposare. Infatti, nel riguardare le foto scattate quel giorno, si vede mia madre firmare con la biro di plastica dell’hotel e lui con la sua penna.
Ognuno ha le sue manie e, come si dice in Venezuela: “cada loco con su tema“. Mia madre mi racconta di essersi chiesta in quell’esatto momento, con il rito fermo, la madre e l’ufficiale civile attoniti e mio padre che rovistava nervosamente in valigia: “Claudia, ma che cazzarola stai facendo!?!”, e di esserselo tra l’altro domandato, per la seconda volta, solo in procinto di diventare la moglie di qualcuno. Terminato il tutto i miei genitori, almeno all’estero, erano ufficialmente marito e moglie.Mia nonna prese un volo per Porlarmar poche ore dopo per raggiungere mio nonno e mio fratello sull’isola, mentre i nostri genitori avrebbero trascorso qualche giorno nello Yucatán per una breve luna di miele.
“ciao mamma, mi sono sposato….e ho un figlio!”
Prima di partire per il Messico, però, mio padre aveva chiamato i suoi e suo fratello Fabiano a Milano, per informarli di essersi sposato e di avere un figlio di 2 anni. I ricordi di mia madre in merito a quella vacanza yucateca sono confusi e poco chiari, ma posso solo dirvi che in 10 minuti più o meno mi ha parlato di spiagge di nudisti, sederi ustionati a forza di stare a pancia giù senza slip e senza oltretutto poter fare il bagno per i continui avvistamenti di squali a riva, yguane grosse come barboncini sulla spiaggia e una memorabile intossicazione alimentare per essersi fidati ed aver seguito a cena dal cognato un taxista con cui avevano fatto amicizia.
Visto l’andazzo (e l’ustione di terzo grado) l’idea era stata di salutare il mare turchese e le spiagge di Cancun per andare a fare un giro delle rovine Maya. In valigia aveva però buttato giusto due sciocchezze ed un paio di sandali tacco 12 cm, abbigliamento poco consono alla salita e discesa delle piramidi, in particolar modo di quella di Chichén Itzá, il cui accesso oggi, a ragion veduta dopo una serie di cadute rovinose da parte di turisti, risulta vietato al pubblico. Da qualche parte, chiusi in qualche scatolone, ci sono senz’altro alcuni degli scatti fotografici fatti da mio padre nella sequenza in caduta libera in cui mia madre precipita dal primo all’ultimo scalino lungo la piramide.
Quando mio padre mi raccontò di quel viaggio, mi fece sorridere parlandomi di grandi frigoriferi della Coca-Cola che nel caldo umido dei pomeriggi messicani sembravano vere oasi nel deserto, ai punti di ristoro vicini alle rovine. Vi si avvicinava disidratati sognando una bibita ghiacciata, fino a quando, al momento di ordinare, te li aprivano davanti spenti e polverosi. Quando coglievi che non fungevano da altro che da dispense e che le prese elettriche giacevano abbandonate nella terra, allora capivi di aver davvero avuto un miraggio.
Una sera, in uno dei loro spostamenti tra una località e l’altra, erano rimasti completamente a secco di benzina, in piena giungla per molte ore perché non avevano trovato nemmeno un benzinaio lungo il percorso.
All’imbrunire avevano iniziato a sbucare da ogni angolo e cespuglio decine di tarantole, che piano piano si erano arrampicate sul cofano e sul parabrezza della jeap che i miei avevano noleggiato. Mio padre per un’ora buona aveva continuato a sostenere che non potessero che essere grossi granchi arrivati da chissà dove, mentre mia madre, più abituata alla fauna e alla flora tropicale, si era barricata dentro pregando in ogni lingua che passasse qualcuno in auto prima che calasse la notte.
Pare che mio padre riuscì ad ammettere che di ragni si trattava solo quando se ne trovò uno sul cruscotto, così vicino da doversi ricredere per forza. Fortunatamente e finalmente, dopo circa 4/5 ore passarono degli americani che li caricarono in auto e li accompagnarono a recuperare con delle taniche la benzina necessaria per far ripartire la loro macchina.
Questo aneddoto mi ha aiutata a capire dove nasca la fobia della “riserva” di mia madre. Giusto per intenderci lei ha il vero e proprio terrore di restare senza benzina. Io che sono una sostenitrice del fatto che quando la lucina inizia a lampeggiare ci sia una riserva eterna e sono piuttosto imprudente, la prendo sempre in giro per questo motivo. Se la spia inizia a lampeggiare e malauguratamente mia madre è in macchina con me, ecco che comincia a sudare freddo e guai se non mi fermo alla prima Agip lungo la strada. Stessa cosa quando viene a sapere di eventuali scioperi dei benzinai.
Comincia a mandare messaggi, mail, WhatsApp, messaggi di fumo, piccioni viaggiatori e raccomandate a mio fratello, me e mio marito fino a quando non le garantiamo tutti e tre di aver fatto il pieno. Tralasciando questa parentesi e tornando alla storia dei miei genitori, terminati quei giorni rientrarono a Margarita, dove mio fratello li stava aspettando. Non molto tempo dopo, però, avrebbero preso la decisione di rientrare in Italia.